Da Pietra verso le pietre. Dalla città nuova verso i ruderi. È quello che chiese Sant’Alberto, a fine Ottocento, apparso in sogno a due donne, quando i suoi fedeli lo invocarono, per porre fine a una crudele e impietosa siccità. Di ritornare all’antica Montecorvino, città andata distrutta dopo le razzie dei barbari, riportandolo al suo paese d’origine in processione. S’incamminò di buona lena, allora, il corteo con il simulacro del patrono e, si racconta, che già sulla via del ritorno caddero i primi goccioloni di pioggia e quell’anno si raccolse “più grano che paglia”. Da allora, il 16 maggio, si ripete ogni anno il pellegrinaggio penitenziale dei petraioli che parte dalla chiesa madre del borgo sino al sito archeologico di Montecorvino, sette chilometri a piedi, immersi nel verde della Daunia che esplode a primavera, tra corolle di calendule, papaveri e profumo di mandorle.
Qui siamo nel cuore della Capitanata, a valle del Sub Appennino Dauno Settentrionale, terra di blocchi tufacei, di pietra antica, in quel pezzo di Puglia chiamato Guado degli Uncini e dove il vicino torrente Triolo era una benedizione per i tanti contadini che vivevano dei prodotti della natura.
L’acqua, che arrivi dal cielo o dalla terra, era ed è ancora un miracolo, una manna, per gli agricoltori. Si tramanda, oggi come allora, la tradizione del corteo in onore di Sant’Alberto, per rievocare quel magico miracolo del grano, e agli abitanti di Petra si uniscono anche quelli di Motta Montecorvino e Volturino, i centri vicini dove si rifugiarono i profughi petraioli rimasti senza abitazione. Decine e decine di braccia e mani forti, per innalzare al cielo i caratteristici “palij”, sorta di alberi della cuccagna, alti sino a venti metri, addobbati con nastri, pennacchi multicolori, fazzoletti variopinti, un elemento che fa della festa patronale petraiola una vera e propria ricorrenza quasi pagana, come un tempo si celebrava Calendimaggio e ci si affidava agli elementi della natura per invocare la buona sorte sulla fertilità degli uomini e dei campi. Il palo era ed è ancora adesso quel tramite tra la terra e il cielo, l’oggetto concreto che consentiva agli uomini di avvicinarsi alle loro divinità e sentirsi parte dell’universo tutto.
Era normanno, Sant’Alberto, vescovo misericordioso, in odore di santità sin dai suoi primi anni di sacerdozio, per la generosità con la qua – le elargiva grazie e prodigi. Aveva gli occhi velati da una cecità precoce ma costantemente rivolti al cielo, e al firmamento mirano anche i grandi “palij”, la cui realizzazione coinvolge tutta la comunità, dai più anziani agli studenti. Inizia qualche settimana prima della ricorrenza, infatti, la raccolta porta a porta di scialli, vecchie coperte, fazzoletti, donati solitamente dalle donne, e nei tempi antichi anche di fasce per neonati, per tenere insieme le decorazioni dei fusti. Segue poi una vera e propria vestizione: il palo viene letteralmente abbigliato e, secondo la sua età, gli viene anche assegnato un posto nel corteo. È tradizione che il palo più anziano sia collocato vicino al santo in processione. Alle prime ore del mattino, issati i pali per mezzo delle funi, si parte dal cuore di Terra vecchia, il centro storico di Pietra, e ci si avvia così, con questa processione quasi fiabesca, in direzione dei ruderi dell’antica cattedrale, camminando lentamente nel verde, affidando alla brezza fresca della primavera inoltrata i canti devozionali e le preghiere.
La processione, lunghissima e segnalata dai fusti, è visibile anche a chilometri di distanza, regalando, a chi fosse sulle alture dell’Appennino, un colpo d’occhio unico al mondo. Giunti ai piedi della vecchia Pietra, si ripete da tempo immemore lo stesso rituale, con la messa celebrata all’aperto e la cerimonia propiziatoria per il raccolto, con la benedizione dei quattro punti cardinali, durante la quale la statua è portata dalle donne, con il viso del santo patrono rivolto verso i campi, mentre al ritorno al paese, dopo una sosta di ristoro presso masseria Carpinelli, i “palji” si incrociano e poi si aprono al passare del centro del paese. Il vento scuote gli scialli e fa ondeggiare i pennacchi. Da più di cent’anni, Sant’Alberto risponde.