A guardare le dita veloci dei danzatori, le mani che scivolano rapide sui tamburelli, non si direbbe. Ma San Rocco a Torrepaduli, nel cuore del Basso Salento, è una festa che scorre lenta, che vive d’attese e di passi stanchi lungo i sentieri di campagna. Fino a pochi decenni fa, per San Rocco ci si preparava settimane prima, per il lungo pellegrinaggio che, da ogni angolo della regione, e non solo, conduceva i devoti nella graziosa frazione di Ruffano. E allora, chi si metteva in cammino era già in penitenza, portando con sé solo l’indispensabile, le preghiere ripetute durante il viaggio e pochi tozzi di pane, confidando nell’ospitalità dell’altro. E chi nella città di San Rocco c’era già, cominciava a fare le provviste, a riassettare le stanze o la corte, perché i pellegrini in arrivo trovassero un posto dove riposare e rifocillarsi, in attesa che il santuario schiudesse le porte.
È la notte più lunga dell’estate, tra il 15 e il 16 agosto, quella di San Rocco, che raduna nella piccola Torrepaduli centinaia di devoti e fedeli, ma anche mercanti e ambulanti. Qui un tempo, tra i pellegrini stanchi e i venditori, per un cavallo rubato o per motivi d’onore, ci si poteva sfidare a colpi di spade e la notte poteva anche finire in tragedia. È nata così la danza scherma, pratica iniziata, secondo la leggenda, dagli zingari che qui giungevano per vendere le loro mercanzie. Una danza che si esegue a ritmo di tamburo nelle ronde che sbocciano tra la folla, ancora oggi, quando d’affilato resta solo lo sguardo e, del codice in uso nei tempi andati, una sola imprescindibile regola: se un anziano desidera proseguire il duello, il più giovane è tenuto a cedergli il passo. La notte di San Rocco è forse una delle poche occasioni in cui osservare da vicino questa danza, uno dei balli tradizionali più autentici, dove, piglio sfrontato, occhi attenti e ritmo incalzante, i duellanti si sfidano dinanzi alla folla. Da una ronda all’altra, veri e propri cerchi di folla che si schiudono uno dopo l’altro nel corso della notte, mentre si aspetta “fino allo squarcio rosso d’alba”, come canta Vinicio Capossela, perché San Rocco apra le porte e accolga tutti nel suo abbraccio.
Nonostante la tensione della danza delle spade, San Rocco era, ed è ancora, la festa dell’accoglienza, nel cuore di una comunità semplice e modesta, scandita dai ritmi della vita contadina, i cui cimeli sono custoditi nel Museo allestito a Palazzo Pasanisi, splendido edificio settecentesco. Un’esistenza fatta di ritmi lenti, che nel cuore dell’estate accelera di colpo, un parossismo di fede, tradizione e devozione popolare, oggi anche appuntamento imprescindibile per i tanti turisti e visitatori della bella stagione.
Cuore della ricorrenza, è il santuario, in origine una semplice cappella, dove i fedeli veneravano San Rocco e il santo con il cagnolino spartiva di buon grado la devozione dei torresi con il vicino San Sebastiano. Dal Settecento, invece, San Rocco ha la sua propria chiesa dove, ai suoi piedi, si vive la notte magica e ancestrale dell’attesa, quando in migliaia ingannano lo scorrere lento delle ore notturne assediate dalla calura, danzando nelle ronde spontanee al ritmo dei tamburelli, dilettandosi tra le tradizionali “zagareddhe” colorate, i ventagli con l’effigie del santo e i dolciumi. Si aspettano le prime luci del mattino, perché si schiudano le porte del santuario e cominci la festa religiosa. Un secondo, un passaggio impercettibile dal sacro al profano, in cui, come fossero tutti d’accordo, le danze s’arrestano, i tamburelli tacciono e ci si raccoglie in muta preghiera. Lo stesso San Rocco era pellegrino, gran camminatore, accompagnato dal bastone e dal fedele cagnolino. E dall’alto, probabilmente, San Rocco se la ride, si gode la giostra delle ronde e l’impazzire dei fuochi d’artificio e, il giorno della festa, per sfuggire alla folla, forse vaga tranquillo tra le viuzze silenziose del centro storico, fermando di tanto in tanto il bastone, un attimo, un pensiero, poi si compiace un po’ e riprende il passo.