Un’offerta fatta di legna e di farina, di pane e di fuoco, nata in un tempo in cui la preghiera doveva toccarsi con mano, farsi peso e sostanza e poi andare in fumo. Sono gli ultimi fuochi di primavera, quelli di San Giuseppe, santo celebrato in quasi tutta la Puglia, patrono di San Marzano. In questo villaggio a pochi chilometri dallo Jonio, è dall’Adriatico che sono giunte le genti albanesi, lungo le antiche rotte migratorie del Cinquecento, facendo di San Marzano, ancora oggi, uno dei maggiori centri arberesh d’Italia. Costumi, riti, canti, danze, ma anche superstizioni, leggende, storie, dell’una e dell’altra sponda del Mediterraneo, hanno trovato rifugio nelle ferite della terra, nelle caratteristiche lame sanmarzanesi, tra colline e brezza marina, tra rilievi calcarei e antichi corsi d’acqua.
È qui, nel cuore di una comunità che la fede e l’appartenenza al santo patrono se le porta anche nel nome, che la festa di San Giuseppe s’è modellata seguendo il calendario della vita agricola, sin da tempo immemore, richiedendo il sacrificio della legna. Tronchi, rami e fascine, accumulati e portati in processione, e poi immolati, nella grande pira devozionale. Lo “zjjarre madhe”, letteralmente “fuoco grande”, in questa lingua che è un po’ tarantina e un po’ albanese, un po’ ionica e un po’ adriatica, è il culmine di una festa che inizia già ai primi di marzo, con la raccolta della legna da parte di tutta la comunità e l’allestimento degli altarini.
Il giorno della vigilia, prima del vespro, si tiene la processione delle fascine, uno dei momenti più caratteristici, quasi teatrali, della ricorrenza, la cui origine risale all’Ottocento, quando la festa si celebrava con tanti piccoli fuocherelli per le strade. Secondo la leggenda, infatti, in una primavera di un anno non precisato nella seconda metà del secolo, gli abitanti di San Marzano, assediati dalla povertà, decisero di non accendere i fuochi in nome di San Giuseppe, non avendo legna da ardere. Quella notte, un rovinoso nubifragio si accanì sul paese, una calamità interpretata come un segno di malevolenza da parte del santo, offeso per la mancata offerta. Allora si corse ai ripari, improvvisando un corteo di fascine, rami e tronchi: donne, uomini e bambini presero la legna e la caricarono sui carri, dirigendosi verso Largo Monte, accumulando tronchi e rami secchi, per offrire un unico grande fuoco a San Giuseppe che, notoriamente, ha fama d’esser dispettoso.
Era il 1866 quando questa devozione fu poi ufficializzata, con la decisione del sindaco di aggiungere quel “di San Giuseppe” al nome del paese, riponendo la Madonna delle Grazie, oggi compatrona. Da allora, si ripete il rito della processione delle fascine, dal centro del paese sino al largo del palazzo marchesale, un corteo impressionante, come una foresta in movimento, dove le donne prendono sottobraccio le cime d’albero, i bambini giocherellano con le fronde e gli uomini guidano i carretti, trainati dai cavalli, bardati e decorati per l’occasione. Un carico verde che si srotola lungo il percorso di circa tre chilometri, tra falò improvvisati per strada e fuochi d’artificio, attraversando il paese, tra cui la centralissima via Roma, un’allegra carovana con circa 50 carri, con le donne incolonnate a portare i sarmenti in equilibrio sulla testa e i più giovani con ardimentosi carretti di fortuna, costruiti artigianalmente insieme agli amici. È la sera della festa, dove il fuoco raggiunge il picco più alto, visibile anche dai paesi limitrofi.
Il 18 mattina, avviene la tradizionale benedizione del pane, preparato due giorni prima, a lenta lievitazione, e segnato dalle iniziali di San Giuseppe o dalla croce. Fatto cuocere nei forni del paese all’alba della vigilia, il pane si raccoglie in profumatissime ceste in chiesa madre per la benedizione durante la messa. Le pagnotte benedette sono poi spezzate con le mani e distribuite ai fedeli, adagiandole sulle tradizionali “mattre”, le tavole imbandite in nome di San Giuseppe, che il santo visita di persona, una ad una, benedette durante il giorno del santo.
È ancora viva l’usanza di raccogliere le briciole del pane, perché nulla della fatica dei preparativi andasse sprecato, e per regalarle ai campi, assicurandosi un’annata di buona sorte e raccolti generosi.