Festa Patronale San Giuseppe, Faggiano Taranto, Puglia – 18 e 19 Marzo

Si apparecchia la tavola per un ospite speciale, a Faggiano, dove San Giuseppe si accomoda ai sontuosi banchetti allestiti per le strade e nelle case dei fedeli. Una tradizione, quella delle “mattre”, che dura da decenni e risale ai tempi in cui nelle cucine proprio la “mattrabanca”, l’asse di legno per fare il pane in casa, non mancava mai.

In occasione della festa in onore del santo della famiglia, il 19 marzo, si tirano fuori le tovaglie buone del corredo, i candidi arazzi domestici ricamati a mano si fanno scenografia del più elegante e significativo dei pranzi, quello della devozione, dove le pietanze si cucinano ma non si gustano, si espongono ai visitatori e si offrono al santo. È il pegno richiesto da San Giuseppe, quello della generosità, del mettere in tavola i prodotti più buoni e poi regalarli al prossimo, ai più bisognosi, con sincerità e discrezione.

Poco più di tremila abitanti popolano i cinque rioni di Faggiano, dove storia e geografia sono scritte nella toponomastica: Cornula, Montedoro, Chiancara, Era Giudei e Lopa Calvario, lande dove un tempo si rifugiarono i monaci basiliani, terre dove un tempo s’insediarono gli albanesi. Una comunità ricca di storia, dove la vita è ancora scandita dal susseguirsi antico delle ricorrenze e delle celebrazioni agresti, dove la fede cattolica sembra solo adagiata su consuetudini ancestrali dell’esistenza contadina.

L’addio al passato, all’inverno ormai alle spalle, e il benvenuto alla primavera anche qui si dà con il fuoco, il grande falò devozionale allestito in piazza Aldo Moro. Un rito che conserva gelosamente le sue radici che affondano in rituali pagani e tradizioni agricole, cui partecipa gioiosamente tutta la comunità e che, prima della spettacolare accensione con i fuochi d’artificio, dà vita a un altro caratteristico rito: quello del corteo di traini e carretti che trasportano le fascine in piazza, nel pomeriggio della vigilia.

Faggiano sembra così tornare indietro negli anni, il paese si ferma come incantato, in questo tempo sparito dove gli zoccoli dei cavalli risuonano per le strade e il crepitare delle prime fascine che prendono fuoco fa spalancare di meraviglia le bocche di grandi e piccini. La pira arde per tutta la notte, scenografia sontuosa della vigilia, spargendo calore e luce nella sera, mentre nelle cucine fremono gli ultimi preparativi per l’allestimento delle “mattre”. A tarda notte, la veglia non è solo quella della preghiera e dei grani del rosario, ma delle mani che impastano, dei grembiuli sporchi di farina e delle dita dolci di miele e zucchero. Una croce si disegna sulle forme di pane prima di lasciarle sbocciare nel forno, mentre i ceci riposano nell’acqua fredda. Una notte operosa, culmine dei preparativi e dei tanti giorni di cucina, perché tutto sia pronto per il giorno di San Giuseppe.

Sono sempre di più le famiglie che schiudono il proprio salotto, aprono le porte a visitatori e fedeli, invitando allo sguardo e alla partecipazione. È qui che batte il cuore della devozione, quello più intimo e discreto, nell’orgoglio compiaciuto delle padrone di casa, nel gesto del dono, nell’eleganza delle composizioni geometriche sulle tovaglie bianche, dove al pane, alle dispense e alle arance s’alternano candide corolle e nastri azzurri, con l’icona di San Giuseppe che dall’alto osserva e benedice. In centro, intanto, s’inaugura con la benedizione del parroco anche la “mattra” del paese, quella allestita dall’associazione cittadina che veglia sulla salvaguardia delle tradizioni popolari, piccolo grande tesoro di un villaggio a un passo dal mare. Qui le narici si riempiono dei profumi di una volta, dai vermicelli fatti in casa alla pasta con i ceci, dal grano ai lampascioni alle rondelle d’arancia. Tutto ha un significato e ogni portata segue un ordine ben preciso.

Nella sera del dì festa, poi è San Giuseppe che, dalla chiesa dell’Assunta, scende in strada a salutare i fedeli, incarnato nel prezioso simulacro che contiene in sé l’unione del rito latino e dell’antico passato ortodosso, con il pargolo divino che gli accarezza il mento, simbolo senza tempo dell’amore paterno.