Nel Salento d’una volta, non c’era solo la pazzia del morso della taranta. C’era chi perdeva la memoria, chi aveva convulsioni o addirittura visioni, e allora era il male di San Donato ad aver colpito e il pellegrinaggio per chiedere la grazia al santo era in direzione di Montesano, nel cuore del Basso Salento dove, sulla via per Nociglia, si erge la piccola cappella settecentesca.
Ci si vestiva di bianco, forse per sopportare meglio il caldo d’agosto, o per invocare la purificazione dal terribile “morbo sacro”, per abbacinare gli occhi di San Donato, il santo misericordioso, con la mitra e il bastone pastorale, lo sguardo fermo dinanzi a sé e il mantello damascato d’oro e scarlatto, una figura che incuteva soggezione e anche un po’ di paura. Ci si dirigeva in pellegrinaggio verso la cappella dei miracoli, lì dove non solo le donne ma anche gli uomini si lasciavano andare all’epilessia, allo stato confusionale, al disordine dello spirito aspettando che la mano del santo rimettesse in ordine le emozioni e i pensieri. La guarigione arrivava quasi sempre, complice anche l’aria pulita e salubre di cui godeva il paese, adagiato su una collinetta, nel paesaggio delle serre salentine, da cui prese poi il nome: il monte sano, taumaturgo e benedetto.
Ai suoi piedi, sotto l’affresco con l’effigie del santo, i pellegrini giungevano da tutto il Salento. I talloni sporchi di polvere, qualche sparuta banconota messa da parte per appuntarla al mantello di San Donato, un tozzo di pane, qualche frutto, erano questi gli ex voto di un tempo, uniti al sacrificio supremo, quello di lasciare incustoditi i campi e le masserie per mettersi in viaggio e porgere i saluti al santo patrono. All’interno della cappella, o nelle sue immediate vicinanze, dove c’erano solo macchia mediterranea e casupole, si dormiva in attesa del miracolo. Anche il sonno, consumato sul pavimento a scacchi dell’edificio, o all’addiaccio, era offerto in voto al santo perché calmasse quei movimenti spontanei, irrefrenabili, delle arti e del capo. Lui, che la testa l’aveva persa per la fede, in seguito al martirio per decapitazione, era diventato patrono di chi la testa non la sapeva più governare, protettore dei malati di mente, degli epilettici e di chi s’era perso per strada, con lo sguardo nel vuoto. “Non è cosa di medici”, si diceva nel vicinato, ma ci voleva un atto di fede, e una speranza cieca, quella di affidarsi alle braccia generose di Santu Tunatu.
Sono tante le similitudini con il più celebre tarantismo, e anche di qui è passato Ernesto De Martino, con il suo taccuino e la macchina fotografica, eppure il male di San Donato sono pochi, anche tra gli stessi salentini, a conoscerlo, avvolto ancora dal segreto e dal riserbo, come una storia di famiglia, di quelle che si sussurrano a voce bassa, accanto al camino.
È ancora forte la sensazione di mistero, di grandioso, che investe la folla di devoti e avventori nei giorni di festa il 6 e il 7 agosto, quando la piccola Montesano, poco più di duemila abitanti, diventa crocevia di turisti, pellegrini, fedeli e dei tanti montesanesi emigrati e fuorisede che ritornano in paese anche per festeggiare il santo patrono. Oggi, come ieri, sono tanti gli ambulanti che giungono in paese con il loro carico di dolciumi, “scapece”, frutta secca, manufatti e mercanzie, animando le strade principali della cittadina con il vociare chiassoso cui fa eco la melodia della banda da giro.
Due sono le processioni principali, che fanno da spola tra la cappella e la chiesa matrice, dedicata all’Immacolata. La prima dopo la messa mattutina, la seconda, più scenografica, al tramonto. Impossibile non prendervi parte e doveroso, per ogni montesanese, almeno una volta nella vita fare da portatore, un onere, e un onore, conteso a suon di offerte in denaro e accese trattative, in quella che è una vera e propria asta, a chi offre di più, per caricarsi sulle spalle il sacro fardello del simulacro. I rilanci continuano anche durante la processione, complice la presenza di una sorta di segretario che, carta e penna alla mano, prende nota delle cifre, mentre, sul pastorale che apre il corteo, i fedeli appuntano con gli spilli cospicui ex voto in denaro, banconote sonanti, poste in bella vista, secondo una consuetudine un po’ tutta meridionale, di una fede fatta vedere, quasi ostentata durante la festa patronale e poi tenuta accanto al cuore, come un fazzoletto, durante il resto dell’anno.