La chiamano “la Matonna noscia”, perché sono gli unici, i parabitani, a festeggiare la Madonna della Coltura, protettrice dei campi e della vita agricola, in virtù del ritrovamento del blocco di pietra sul quale è raffigurata l’icona della Vergine, in contrada Pane, appena fuori le porte della cittadina. Era un giorno di maggio di un’epoca imprecisata quando un contadino, al lavoro con i suoi buoi, vide le bestie inginocchiarsi nel campo. Nonostante le sferzate del fattore, i buoi rifiutarono di proseguire il lavoro. Scavando con le proprie mani, l’uomo ritrovò nella terra il blocco di pietra affrescato, realizzato probabilmente dai monaci basiliani e poi nascosto per timore delle persecuzioni iconoclaste.
Il contadino lasciò allora l’aratro e corse a dare il lieto annuncio ai suoi concittadini. La paura di non essere creduto, forse, il timore di aver scoperto qualcosa di più grande della sua piccola esistenza da agricoltore. Cosa avrà pensato quell’uomo mentre correva verso Parabita ad annunciare che i suoi buoi si erano inginocchiati e, sotto terra, avevano scoperto la Madonna?
In onore della Vergine della Coltura, si ripete ogni anno l’emozione della corsa per annunciare la lieta novella, con i giovani podisti che partono da contrada Paradiso, dove si trova oggi il monumento alla santa patrona, sulla via per Alezio, e arrivano “sutt’a porta”, alle soglie del centro storico. Nella tradizionale corsa dei “curraturi”, si corre trafelati, grandi e piccini, come impazienti di portare la buona novella, ricordando, secondo alcune versioni, la foga del contadino. I più piccoli sono abbigliati da fattori e percorrono solo gli ultimi cento metri, mentre i più grandi si sfidano in una vera e propria gara podistica di un chilometro e mezzo, divisi in tre squadre, ognuna facente capo a una parrocchia. La corsa si svolge a mezzogiorno in punto, per incrociare la processione diurna e tagliare il traguardo incoraggiati dalla folla assiepata ai lati della strada e sotto lo sguardo dei tre protettori della città: San Rocco, San Sebastiano e la Madonna della Coltura. Uno dei momenti più popolari e caratteristici di quest’antica festa, dedicata alla protettrice dell’agricoltura, delle vite semplici e della quotidianità dei contadini, e di quei campi che un tempo erano l’unica fonte di sostentamento per i parabitani.
La festa cade durante l’ultimo fine settimana di maggio e non è improbabile che a raccontarvi della storia della Vergine sia proprio qualcuno che si chiami Coltura. Cuore della ricorrenza è il Santuario dedicato alla Madonna, elevato al rango di Basilica minore nel 1999, costruzione novecentesca lineare e maestosa, non solo chiesa, ma anche luogo di ritrovo dell’intera comunità, grazie al grande cortile interno, alla bella piazza Regina del Cielo, sovrastata dall’obelisco della Vergine e al parco antistante. All’interno del santuario, sull’altare maggiore, è conservato l’imponente blocco di pietra, il monolito con l’effigie della Madonna della Coltura, incorniciato da un baldacchino dorato, punto di fuga dell’intera costruzione. Lo sguardo malinconico, la dolcezza, il manto che sembra ancora sporco di terra arsa, le guance della Vergine e del Bambino unite insieme nell’abbraccio, è quasi impossibile non restarne incantati.
Accanto al Santuario, svetta il campanile, un tempo protagonista dell’ultimo giorno di festa, nel caratteristico incendio della torre campanaria, uno spettacolo importato dalla tradizione napoletana, attesissimo non solo dai parabitani, ma anche dalle genti dei paesi vicini. Una magia di fuochi, luminarie, colori e geometrie, innescata dall’icona della Madonna che, tirata su da una cordicella, risaliva la torre per dare via all’incendio, con cascate ed esplosioni di fuochi pirotecnici. Una consuetudine oggi scomparsa, per via delle stringenti norme di sicurezza.
Gli occhi restano puntati al cielo, però, perché si rispetta ancora oggi la storica tradizione dei “palloni t’a Matonna”, le pittoresche mongolfiere devozionali con i messaggi e le preghiere dei fedeli, che si lasciano galleggiare nell’aria e volano nel cielo notturno, un’arte tramandata di generazione in generazione e che trova proprio a Parabita alcuni tra i suoi più importanti maestri, i cosiddetti “pallunari”.